RASSEGNA CINEMATOGRAFICA INVERNALE 2019  "MARTEDI' AL CINEMA" 26 marzo ore 21:00 IL DIRITTO DI CONTARE Casa del Popolo. via Don Veneziani, 64 -Rivergaro (PC)

IL DIRITTO DI CONTARE

Da una storia vera, di quelle che vale la pena siano raccontate, un feel good movie che sceglie una lingua semplice e diretta, tutto al servizio dei personaggi e delle loro vicende. Il sogno di emancipazione e carriera di tre donne nere nell'America degli anni Sessanta fa il paio con sogno kennediano della conquista dello Spazio: in entrambi i casi il sogno di essere già lì, dove il resto del mondo deve ancora arrivare. Bravissime le protagoniste (Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe), supportate da un cast bianco scelto con intelligenza: su tutti Kevin Costner, che nei film ambientati in quegli anni li sta sembre bene, ed è burbero quanto basta. Per un film di questo tipo, il livello della retorica e della melassa sentimentale è sorprendentemente basso.

GENERE: Drammatico

REGIA: Theodore Melfi

ATTORI: Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst, Jim Parsons, Mahershala Ali, Aldis Hodge, Glen Powell, Kimberly Quinn

DURATA: 127 Min

CRITICA: una parabola di emancipazione femminile che sfoglia una pagina sconosciuta della nasa.

Ci sono storie che, davvero, vale la pena vengano raccontate: e la storia di Katherine Johnson, e delle colleghe Dorothy Vaughn e Mary Jackson, è senza dubbio una di quelle. Bene, quindi, che dopo il libro che ha dedicato loro Margot Lee Shetterly, arrivi ora un film diretto da Theodore Melfi.

Il diritto di contare, va detto subito, è un feel good movie.  Gli basta la storia, raccontarla, come è giusto e bello che sia, con una lingua semplice e diretta, senza vezzi o ambizioni di fare cinema alto e raffinato. No, qui tutto e tutti sono al servizio della storia.

Solo la vita poteva sceneggiarla così, la vicenda di queste tre donne nere che, nell'America del 1961 (nella Virginia del 1961, che, come viene ricordato, era ancora uno stato fieramente segregazionista: e parliamo di poco più di 50 anni fa), hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo della NASA. Senza la Johnson, in particolare, John Glenn non sarebbe stato il primo americano nello Spazio, o forse sarebbe morto in missione. Senza di lei, gli Stati Uniti non avrebbero messo piede e bandiera sulla luna.

Tutto questo grazie a Katherine Johnson. Nera. E donna. Nell'America e nella Virgina del 1961: due anni prima della marcia su Washington del Reverendo King, e quando Kennedy stava ancora lavorando sulle leggi che avrebbero garantito i diritti civili alla popolazione afroamericana e che sarebbero sfociate nel Civil Right Act, o dell'istituzione della Commissione Presidenziale sullo Status delle Donne.

Da un lato il sogno di Katherine Johnson, e di Dorothy Vaughn e Mary Jackson, quindi; dall'altro il sogno kennediano della conquista dello Spazio. Due sogni e due utopie che si sono realmente intrecciate come solo la realtà può fare, e che sono diventati realtà grazie alla capacità di poche persone di essere visionarie. Di guardare oltre i numeri, come dice Kevin Costner nei panni di Al Harrison, director of the Space Task Group, e vedere qualcosa che non c'è ancora: essere già lì, dove il resto del mondo deve ancora arrivare.

Yes We Can, si sarebbe detto fino a poche settimane fa.

Con un materiale del genere a disposizione, che praticamente si è scritto da solo, a Melfi non rimaneva moltissimo da fare, ed è stato bene attento a farlo senza commettere troppi errori. Perché, per esempio, ti spaventa subito con un incipit vagamente seppiato, nel quale la Katherine bambina vede letteralmente le forme geometriche animarsi mentre il mondo scopre il suo genio e sotto gli archi trionfano impetuosi, ma poi passa tutto il resto del film a dire "vedi? mica ho fatto quella roba lì dell'inizio."

E va anzi riconosciuto che, per un film di questo tipo, il livello della retorica e della melassa sentimentale è sorprendentemente basso. Basterebbe, in questo senso, pensare a come Melfi gestisce la storia di Katherine che deve correre per un km ogni volta che deve andare in bagno, perché nella palazzina dove svolge il suo nuovo, importante compito, di bagni per "colored" non ce ne sono: toni che, soprattutto all'inizio, sono più da commedia che da dramma.

Insomma, Melfi fa il suo lavoro; si mette al servizio della storia, e ci mette tre bravissime protagoniste (Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe), supportate da un cast bianco scelto con intelligenza: dal citato Costner, che nei film ambientati in quegli anni ci sta sembre bene, ed è burbero quanto basta, a Kirsten Dunst e Jim Parsons - bianchi un po' rigidi e un po' ariani che "non ho niente contro di voi", dicono, sottintendendo "voi" neri , esplicitando senza volerlo il problema ("Lo so. So che è quello che lei crede", gli risponde infatti Octavia Spencer) - passando per il Glen Powell perfetto per un simpatico e progressista John Glenn.

Sotto, basta archi e spazio a una colonna sonora soul e jazz che ci sta sempre bene, e sopra un po' di enfasi - legittima - sul pragmatismo positivista della scienza: perché, dice Coster sbottando sulla faccenda del bagno, "qui alla NASA la pipì è tutta dello stesso colore".E allora ecco che te lo guardi, Il diritto di contare, ti ci rilassi davanti e quasi non ci credi che poco più di cinquanta anni fa le cose stavano in quel modo, e poi ci pensi e capisci che di passi avanti non ne abbiamo fatti ancora abbastanza, per i neri, per le donne, per tutti coloro cui viene tolto qualche diritto, negata qualche possibilità. Nonostante la scienza, la NASA, nonostante Katherine Johnson, Dorothy Vaughn e Mary Jackson. La cui storia doveva essere raccontata: anche al cinema, anche così.

RASSEGNA CINEMATOGRAFICA INVERNALE 2019  "MARTEDI' AL CINEMA" 26 marzo ore 21:00 IL DIRITTO DI CONTARE Casa del Popolo. via Don Veneziani, 64 -Rivergaro (PC)

Figure Nascoste (Hidden Figures, titolo originale) è un gioco di parole che volutamente vuole esprimere un dualismo concettuale. Se da un lato le “figures” rappresentano le donne che hanno combattuto per uscire dall’oblio che veniva loro imposto a causa del sesso e del colore della pelle, dall’altro indicano i numeri matematici che stanno dietro a tutte le loro brillanti scoperte. Il titolo italiano del film, Il Diritto di Contare, gioca a sua volta con il doppio significato di contare, inteso come diritto di valere oltre che di destreggiarsi tra calcoli e cifre senza discriminazioni.  

Il regista Theodore Melfi (“St. Vincent”) dà vita all’ascesa di queste tre donne ai vertici del programma aerospaziale della NASA in un film veloce, brillante e fonte d’ispirazione che, da un lato, fa luce sulla coraggiosa ambizione verso un obiettivo che sembrava apparentemente impossibile, vale a dire il volo orbitale intorno alla Terra, e, dall’altro, mette in evidenza gli straordinari risultati che possono nascere dall’unione fra donne.  Al di là delle gioie e dei trionfi che celebra, IL DIRITTO DI CONTARE è ambientato in un’epoca che ha segnato un punto di svolta nelle più accese battaglie della storia americana: il progresso nella lotta per i diritti civili; il predominio nella Guerra Fredda senza arrivare al conflitto nucleare; il successo come prima superpotenza a portare l’uomo al di fuori del pianeta; la dimostrazione che, né la posizione sociale, né il genere incidono sulle straordinarie scoperte tecnologiche che hanno aperto la strada al futuro. “Questa storia ha luogo quando entrano in collisione la Guerra Fredda, la corsa allo spazio, le leggi di segregazione Jim Crow negli stati del sud e il nascente movimento per i diritti civili. È un contesto complesso in cui prende forma una storia ricca e straordinaria di cui poche persone sono a conoscenza”, spiega Melfi. Aggiunge Taraji P. Henson: “Ora sappiamo che all’ombra di John Glenn e della sua orbita spaziale intorno alla Terra vi erano tre donne eccezionali: finalmente conosciamo la loro storia”. Non può che commuovere il fatto che Katherine G. Johnson, ormai ultranovantenne, si sorprenda per la crescente attrazione per le attività svolte da lei e dalle sue colleghe perché, afferma la donna, lei ha solo fatto del suo meglio per il lavoro, per la famiglia e per la comunità, come avrebbe fatto chiunque altro. “Io trovavo una soluzione ai problemi che andavano risolti”, ella dichiara con la modestia che la contraddistingue. Quanto a un consiglio alle persone che devono affrontare le sfide nel mondo attuale, ecco le parole della Johnson: “Attenetevi al problema. Qualunque esso sia, c’è sempre una soluzione. Una donna può risolverlo e anche un uomo può farlo… se gli concedete più tempo”.

Prima ancora che la NASA ne comprendesse la genialità e iniziasse a trarne beneficio, le tre donne erano già incredibilmente speciali:

• Katherine G. Johnson: nata nel West Virginia, si era da subito dimostrata un fenomeno, iniziando le scuole superiori a 10 anni e laureandosi in Matematica e Francese a 18 anni. Fu una delle prime 5 a frequentare la West Virginia University e fu chiamata a lavorare a Langley nel 1953. Era una madre single con tre figli.

• Dorothy Vaughan: originaria del Missouri e laureatasi a 19 anni, prima di andare a Langley nel 1943 aveva lavorato come insegnante di matematica. Divenne rapidamente responsabile del gruppo West Computing.

• Mary Jackson: di Hampton (Virginia), laureata in Fisica e Matematica, entrò a Langley nel 1951 con il ruolo di Ingegnere aerospaziale, specializzata in esperimenti nella galleria del vento e in dati sui velivoli aerospaziali. Si avvalse sempre della sua posizione per aiutare le altre.